venerdì 26 giugno 2015

Ritorno alla civiltà

Dormo male, freddo e umidità mi penetrano nelle ossa; nonostante tutto sono un homo metropolitanus e le notti in tenda – per quanto lascino in bocca il sapore di avventura – sono provanti. Mi sveglio intirizzito alle 6 e mi dirigo al rifugio: Mohammed mi accoglie con un largo sorriso, dice che era preoccupato per me, che ci potessero essere dei ladri o che qualcuno mi importunasse. Lo ringrazio per la sollecitudine, anche se tardiva, e rimarco il fatto di non essermi mai sentito minimamente minacciato da uomini o animali. Anzi, benché fossi sperduto in un cantuccio nascosto in una valle sperduta dell’Atlante marocchino, ho sempre avuto la sensazione di sicurezza, come se qualcosa o qualcuno mi proteggesse. Chiamatela fortuna che aiuta gli audaci, angelo custode o buona stella.
Una rapida colazione e ripartiamo; camminiamo fino a Tighramt (Kasbah in berbero) Aithmad, un’imponente costruzione abbandonata e mezza crollata, adagiata in un cono d’ombra, protetta dalla vivida luce del mattino.


Dobbiamo guadare nuovamente lo wadi gelato e mentre io decido di togliere scarpe e calze e dare sollievo ai miei piedi, Mohammed entra nel torrente con le scarpe…mah, usanze berbere, evidentemente.
Ci inoltriamo in una valle laterale e saliamo per un paio d’ore; Mohammed si sta riavvicinando a casa: lo capisco dal fatto che ha accelerato il passo e che saluta le poche persone che incontriamo, tra cui un pittoresco uomo che scende la valle a dorso di mulo, agghindato come un principe berbero – scarpe da ginnastica a parte.
La salita procede tra rocce frastagliate e imponenti fino a un valico che si affaccia sulla Vallée Heureuse, scendiamo veloci fino a incontrare Moustafà che ci ha preceduto, sempre accompagnato dal suo fedele mulo senza nome, per preparare il tè e il pranzo.


La mattina di cammino e una chiacchierata con Mohammed mi hanno permesso di mettere a fuoco alcuni concetti; uno di questi – forse il più importante – è “Non importa quello che hai ma quello che sei e soprattutto quello che sai”. Quello che hai lo puoi perdere, ti può venire rubato , si può rovinare ma quello che sei lo sarai sempre, in tutto o in parte e difficilmente lo potrai perdere. Quello che sai sarà tuo per sempre e definisce quello che sei. Ok, sembra una frase da cazzo di bacio Perugina ma è così.
Dopo pranzo salutiamo Moustafà che riporta il mulo al suo padrone; gli do un piccolo pourboire - da non confondersi col bakshish – una mancia, dopo che Mohammed mi ha detto che per questi cinque giorni di sbattimenti e notti al freddo si porta a casa solamente 300 Dirham (30 euro). Ciao Moustafà, abbiamo parlato poco ma ci siamo sempre capiti.
Mohammed e io riprendiamo a camminare sotto il sole cocente delle due del pomeriggio; avvicinandoci a Tabant incontriamo sempre più gente: noto la differenza tra le donne della Vallée des Roses, vestire interamente di nero, e quelle della Vallée Heureuse, abbigliate con colori sgargianti. Arriviamo al Gite da cui siamo partiti e ci accoglie Housayn che funge da coordinatore delle guide della valle. Mentre Mohammed ha un sorriso aperto e lo sguardo franco, Housayn è un po’ ambiguo, guarda di sottecchi, sembra che mi studi; il suo scrutarmi mi mette un po’ a disagio, ha qualcosa di furbesco col suo cappello consunto e sfilacciato, gli occhialini dalle lenti un po’ scure – sembra Gary Oldman in Dracula – i denti storti e un po’ cariati tra cui spiccano i due incisivi. Assomiglia alla volpe di Pinocchio o a qualche vecchio impresario teatrale, navigato e un po’ calcolatore. Tra me e me ho sempre l’impressione che mi stia chiedendo dei soldi.
Gli unici clienti della casa berbera sono due ragazzi inglesi di Manchester venuti per fare un paio di giorni di trekking in valle; sono in Marocco da una settimana e ne passeranno altre tre. Lei ha in programma di fare un semestre all’Accademia di Belle Arti a Venezia. Dopo una doccia rintemprante parto alla scoperta di Tabant, il capoluogo della valle, lungo un sentiero tra alberi da frutto e campi coltivati a grano e orzo. Il paese si rivela un villaggio squallido e polveroso, costituito da un’unica strada sterrata che lo attraversa, tra piccole botteghe che vendono chincaglieria, alimentari e bombole a gas, uno degli articoli più diffusi visto che la fornitura diretta non sembra essere arrivata in valle.
Ritorno in hotel e attendo la cena, il solito tajin di verdure con coscia di pollo: inizia e essere un po’ monotono ma mi sazia e tanto basta. Chiacchiero con Housayn che si rivela una persona interessante, parla anzi filosofeggia di ricchezza e povertà, dare e avere, vita e morte. Mi racconta che un giorno ad Azilal, nello stesso giorno, sono morti il più povero e il più ricco della città. Nonostante la differenza di ceto entrambi hanno avuto la stessa cerimonia, i corpi lavati avvolti in sudari bianchi e la preghiera dell’imam. Tanto simili nella morte quanto erano stati dissimili in vita. Mi ricorda “ ‘A livella” di Totò: la morte pareggia tutto.

Poi mi racconta di com’è difficile la vita in valle, a gennaio e febbraio, con mezzo metro di neve, e i bambini che escono la mattina con i sandali a – 10°. Durante un viaggio in Francia alcuni anni fa ha conosciuto un francese, pilota militare, che ogni anno porta vecchi vestiti per la popolazione della valle; il primo anno ne ha portati 100 chili, l’anno scorso 1000.     

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