Dormo male, freddo e umidità mi penetrano nelle ossa; nonostante tutto
sono un homo metropolitanus e le notti in tenda – per quanto lascino in bocca
il sapore di avventura – sono provanti. Mi sveglio intirizzito alle 6 e mi
dirigo al rifugio: Mohammed mi accoglie con un largo sorriso, dice che era
preoccupato per me, che ci potessero essere dei ladri o che qualcuno mi
importunasse. Lo ringrazio per la sollecitudine, anche se tardiva, e rimarco il
fatto di non essermi mai sentito minimamente minacciato da uomini o animali.
Anzi, benché fossi sperduto in un cantuccio nascosto in una valle sperduta dell’Atlante
marocchino, ho sempre avuto la sensazione di sicurezza, come se qualcosa o
qualcuno mi proteggesse. Chiamatela fortuna che aiuta gli audaci, angelo
custode o buona stella.
Una rapida colazione e ripartiamo; camminiamo fino a Tighramt (Kasbah in berbero) Aithmad, un’imponente costruzione abbandonata e mezza crollata, adagiata in un cono d’ombra, protetta dalla vivida luce del mattino.
Dobbiamo
guadare nuovamente lo wadi gelato e mentre io decido di togliere scarpe e calze
e dare sollievo ai miei piedi, Mohammed entra nel torrente con le scarpe…mah,
usanze berbere, evidentemente.
Ci inoltriamo in una valle laterale e saliamo per un paio d’ore; Mohammed
si sta riavvicinando a casa: lo capisco dal fatto che ha accelerato il passo e
che saluta le poche persone che incontriamo, tra cui un pittoresco uomo che
scende la valle a dorso di mulo, agghindato come un principe berbero – scarpe da
ginnastica a parte.
La salita procede tra rocce frastagliate e imponenti fino a un valico
che si affaccia sulla Vallée Heureuse, scendiamo veloci fino a incontrare
Moustafà che ci ha preceduto, sempre accompagnato dal suo fedele mulo senza
nome, per preparare il tè e il pranzo.
La mattina di cammino e una chiacchierata con Mohammed mi hanno permesso
di mettere a fuoco alcuni concetti; uno di questi – forse il più importante – è
“Non importa quello che hai ma quello che sei e soprattutto quello che sai”.
Quello che hai lo puoi perdere, ti può venire rubato , si può rovinare ma
quello che sei lo sarai sempre, in tutto o in parte e difficilmente lo potrai
perdere. Quello che sai sarà tuo per sempre e definisce quello che sei. Ok, sembra una frase da cazzo di bacio Perugina ma è così.
Dopo pranzo salutiamo Moustafà che riporta il mulo al suo padrone; gli
do un piccolo pourboire - da non
confondersi col bakshish – una mancia,
dopo che Mohammed mi ha detto che per questi cinque giorni di sbattimenti e
notti al freddo si porta a casa solamente 300 Dirham (30 euro). Ciao Moustafà,
abbiamo parlato poco ma ci siamo sempre capiti.
Mohammed e io riprendiamo a camminare sotto il sole cocente delle
due del pomeriggio; avvicinandoci a Tabant incontriamo sempre più gente: noto
la differenza tra le donne della Vallée des Roses, vestire interamente di nero,
e quelle della Vallée Heureuse, abbigliate con colori sgargianti. Arriviamo al
Gite da cui siamo partiti e ci accoglie Housayn che funge da coordinatore delle
guide della valle. Mentre Mohammed ha un sorriso aperto e lo sguardo franco,
Housayn è un po’ ambiguo, guarda di sottecchi, sembra che mi studi; il suo
scrutarmi mi mette un po’ a disagio, ha qualcosa di furbesco col suo cappello
consunto e sfilacciato, gli occhialini dalle lenti un po’ scure – sembra Gary
Oldman in Dracula – i denti storti e un po’ cariati tra cui spiccano i due
incisivi. Assomiglia alla volpe di Pinocchio o a qualche vecchio impresario
teatrale, navigato e un po’ calcolatore. Tra me e me ho sempre l’impressione
che mi stia chiedendo dei soldi.
Gli unici clienti della casa berbera sono due ragazzi inglesi di
Manchester venuti per fare un paio di giorni di trekking in valle; sono in
Marocco da una settimana e ne passeranno altre tre. Lei ha in programma di fare
un semestre all’Accademia di Belle Arti a Venezia. Dopo una doccia rintemprante
parto alla scoperta di Tabant, il capoluogo della valle, lungo un sentiero tra
alberi da frutto e campi coltivati a grano e orzo. Il paese si rivela un villaggio
squallido e polveroso, costituito da un’unica strada sterrata che lo
attraversa, tra piccole botteghe che vendono chincaglieria, alimentari e
bombole a gas, uno degli articoli più diffusi visto che la fornitura diretta
non sembra essere arrivata in valle.
Ritorno in hotel e attendo la cena, il solito tajin di verdure con
coscia di pollo: inizia e essere un po’ monotono ma mi sazia e tanto basta.
Chiacchiero con Housayn che si rivela una persona interessante, parla anzi
filosofeggia di ricchezza e povertà, dare e avere, vita e morte. Mi racconta
che un giorno ad Azilal, nello stesso giorno, sono morti il più povero e il più
ricco della città. Nonostante la differenza di ceto entrambi hanno avuto la
stessa cerimonia, i corpi lavati avvolti in sudari bianchi e la preghiera dell’imam.
Tanto simili nella morte quanto erano stati dissimili in vita. Mi ricorda “ ‘A livella”
di Totò: la morte pareggia tutto.
Poi mi racconta di com’è difficile la vita in valle, a gennaio e
febbraio, con mezzo metro di neve, e i bambini che escono la mattina con i
sandali a – 10°. Durante un viaggio in Francia alcuni anni fa ha conosciuto un
francese, pilota militare, che ogni anno porta vecchi vestiti per la
popolazione della valle; il primo anno ne ha portati 100 chili, l’anno scorso
1000.
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