Oggi è il giorno in cui mi muovo verso le montagne. Mi dirigo alla
stazione degli autobus , la Gare Routiére, per comprare il biglietto per
Azilal. Ho un’ora e mezza di attesa , ne approfitto per visitare i giardini di
El Harti, una piccola oasi di silenzio nel traffico caotico della città.
La stazione degli autobus assomiglia a tutte le altre stazioni che ho
visto in Nordafrica e Asia: code di persone che attendono pazienti, quasi
rassegnate, individui dall’aria affacendata dividono i viaggiatori in base alla
destinazione e li indirizzano alla piattaforma giusta. Mi metto in attesa anche
io e osservo un meccanico che finisce di cambiare la ruota dell’autobus davanti
alla mia banchina, che non sembra per nulla affidabile.
I passeggeri si svegliano subitaneamente dal loro torpore, si alzano
tutti contemporaneamente e corrono verso un’altra banchina e i bigliettai
strillano “Azilal, Azilal”. Salgo su un autobus che sembra parecchio più nuovo
del precedente , chiaramente strapieno; ovviamente sono l’unico straniero.
Trovo posto in penultima fila, accanto a un tipo strano, coi denti rossi
macchiati di tabacco, che borbotta due parole di francese. È incuriosito, mi
chiede dove vado dopo Azilal, rispondo che non lo so: sono stufo di gente
interessata morbosamente ai miei spostamenti. Lui va alle cascate d’Ouzoud, io
sono diretto alla valle di Aït Bouguemez, punto di inizio del mio trekking,
della salita al M’Goun.
Prima della partenza sul bus sale qualsiasi tipologia di essere umano,
mendicanti senza braccia, venditori di cibo, fazzoletti e scarpe, un uomo
distribuisce il Corano a tutti i passeggeri – io declino con cortesia, ho paura
che mi venga la nausea a leggere in pullman.
Finalmente si parte e siamo già nell’ingorgo ancora prima di uscire
dalla stazione dei bus, tutti gli autobus in partenza si accalcano verso lo
stretto pertugio che costituisce l’uscita, convulsi colpi di clacson, urla,
improperi e gestacci da parte degli autisti. Da Marrakech ad Azilal sono 150
chilometri che percorriamo alla fantasmagorica velocità di 40 km/h, compresa la
pausa a metà strada per il pranzo. Ci fermiamo in un villaggio lungo la strada,
tutti si lanciano giù dal bus e si siedono a tavola a mangiare tajin e kebab.
Io, visto il caldo e il viaggio ancora lungo, mi accontento di un po’ di frutta
fresca.
A metà pomeriggio arriviamo ad Azilal, sperduta cittadina nel desrto,
eppure capoluogo di una provincia del Marocco centrale. Oggi, come in tutti gli
altri giorni che Allah manda in terra, è giorno di mercato, un souk polveroso e
incasinato, con venditori di succo d’arancia che stazionano con la loro
bancarella ai margini del parcheggio dei bus, una folla cenciosa e disordinata
si muove senza tregua, contratta, urla, prega.
Essendo l’unico straniero vengo subito individuato dal ras della
piazza, l’organizzatore dei pullmini collettivi, “Transport Mixte”, che mi porteranno a destinazione; mi porge il
biglietto e sul retro mi scrive l’indirizzo di un hotel dove pernottare e verosimilmente
trovare una guida. Hassan ha 34 anni – anche se sembra mio padre – è berbero,
si muove con disinvoltura tra pullman, pullmini, camion e carretti e fà tutto
con una mano sola, la destra: scrive, strappa biglietti, prende soldi, dà
resti, indica gli autobus in partenza. Nella mano sinistra, tra l’indice e il
medio, tiene ben stretto fasci di banconote divise per taglio.
Dopo quasi un’ora di attesa salgo sul pullmino e trovo un posto
singolo vicino al finestrino; Hassan sale e mi porge il suo cellulare: “è la
guida, parla”. Husayn la guida parla un francese discreto e mi assicura che
verrà a intercettarmi al Gite d’Etape, l’albergo rifugio. Non ho dubbi, da
queste parti hanno un’efficacissima catena di trasmissione delle informazione
(e dei soldi del clienti), nulla è lasciato al caso.
Quando il veicolo è pieno partiamo, siamo stracarichi di persone e
oggetti, soprattutto angurie, caricate sul tetto insieme al mio zaino. All’interno
un paio di persone hanno piazzato dei bassi sgabelli di plastica in mezzo al
corridoio e si accomodano così. Man mano che si prosegue continuiamo a caricare
persone; arriviamo a essere 24 su un mezzo omologato per 16. In ultima fila c’è
una coppia di giovani, lei inizia a vomitare dopo dieci minuti e andrà avanti
tutto il viaggio; scenderà, pallida come un cencio e traballante sulle gambe, a
pochi chilometri dal capolinea. Magari è in cinta oppure ha semplicemente
mangiato pesante; io per non sbagliare mi sono tenuto leggero.
Il viaggio dura tre ore lungo una strada miracolosamente asfaltata,
tortuosa e a strapiombo su lontani torrenti impetuosi e limacciosi. Pian piano
i passeggeri vengono lasciati alle loro case, io sono l’ultimo, ormai è quasi buio e
mi chiedo che ne sarà di me in questa valle sconosciuta che assomiglia alla
valle di Dracula nel film di Coppola.
Arriviamo a Tabant, anzi un sobborgo.
Definirlo paese è esagerato, sono tre case su un sentiero sterrato; vengo
accolto da Husayn che mi introduce in una casa berbera di cui sono l’unico
ospite.
Mi aspettavo altri trekkers ma la guida mi dice che quest’anno c’è
poco movimento; non so se lo dice per impietosirmi e strapparmi un prezzo più
alto. Tira fuori la carta e mi mostra due alternative: la Boucle e la
Traversée, l’anello del massiccio del M’Goun o la traversata fino alla Valle
delle Rose. La seconda sarebbe fantastica ma va oltre le mie possibilità
economiche e me la tengo per la prossima volta. Inizia una trattativa serrata
sul prezzo davanti a una caraffa di tè bollente e speziato. Sono le 9 di sera,
non ho mangiato e inizio a essere stanco e nervoso; mi spara un prezzo per il
tour senza guida, solo col mulattiere. Gli faccio una controproposta, lui ci
pensa su ed esce per il paese alla ricerca del mulattiere. Mentre mangio la
tajin di pollo e verdure che mi ha preparato Mohammed, il ragazzo
quattordicenne che sta in cucina, rifletto e decido che è meglio avere anche la
guida. Quando Husayn torna trafelato formulo la controfferta, lui ci pensa, fà
due calcoli ed esce a cercare anche la guida; torna affannato per dirmi che l’affare
è concluso: domattina alle 8 si parte con guida, mulattiere, mulo e tenda per
il giro del M’Goun.
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