Oggi è il gran giorno della salita a Ighil (“monte” in berbero) o
Jebel (“monte” in arabo) M’Goun. Sveglia alle 5, colazione del campione, pane arabo,
olio e marmellata di fragole – un “maipiùsenza”, lo devo importare in Italia –
e partenza.
Sono le 5.30, è ancora buio, camminiamo con la lampada frontale;
lentamente la luce si affaccia sull’altopiano, è un’alba nitida, cristallina,
eterea. Il sole però non lo vederemo per un po’, ci inerpichiamo per un
sentiero ripido di sfasciumi.
Alcune chiazze di neve macchiano le pendici della montagna possente. Dopo 3 ore di sdrucciolii, scivolamenti e imprecazioni arriviamo in cresta; a sud una serie ininterrotta di catene montuose che terminano nei bastioni dell’Anti Atlante, a est la ferita profonda e verdeggiante della Valle delle Rose, a nord un mare di nuvole da cui spuntano solo le cime più alte, a ovest l’altopiano declina dolce verso il deserto.
Seguiamo
la cresta, rocciosa e ventosa per due ore e finalmente alle 10.30 siamo in
cima. Penso a cosa urlerò una volta in vetta, voglio esternare tutta la mia
gioia. Tutto quello che mi esce è un liberatorio “Hippyaye, figlio di
puttana” (Bruce Willis docet). Ho raggiunto il mio obiettivo: il cuore scoppia
di gioia, i polmoni lavorano tanto. Sono a 4067 metri.
Tira un vento da Coppa America ma nonostante tutto troviamo un
cantuccio riparato e restiamo un’ora sulla cima a goderci il sole e la vista
sul mondo che ci circonda.
Poi cominciamo la ripida discesa in uno scenario lunare; sembra di
essere sul pianeta Tatooine di Guerre Stellari, solo che invece di essere
spiati dai Sabbipodi, siamo seguiti dai nomadi che si palesano con i loro
greggi di pecore nei luoghi più impensati a 3000 metri. A un certo momento
Mohammed mi dice: “Lo vedi quel ragazzino?” e penso che stia scherzando;
intorno a noi il nulla, ripide pareti di roccia che si sgretola. Invece
aguzzando l’occhio in lontananza intravedo un apiccola figura abbarbicata alla
montagna. Ci avviciniamo e scorgo una ragazzina che cammina con naturalezza
indossando dei semplici mocassini su sentieri impervi dove io fatico a stare in
piedi con gli scarponi da montagna.
Scendiamo lungo un torrente impetuoso, figlio dello scioglimento delle
nevi del M’Goun, fino a incontrare il luogo dove Moustafà ha posizionato il
bivacco; mulo e mulattiere hanno percorso un’altra strada perché l’animale non
riesce a salire in vetta.
Improvvisamente mi scende la tristezza; cerco di capirne i motivi. Il
primo pensiero è che ho raggiunto l’obiettivo e mi sento come svuotato, ho dato
tutto in salita e ora sono vuoto, leggero.
Il secondo pensiero, più forte, è la solitudine: siamo io, una guida
simpatica ma che non posso considerare amico, un mulattiere che parla solo
berbero e un mulo spelacchiato. È un
sabato sera di giugno, potrei essere a Milano per aperitivi e invece sono in
una sperduta valle dell’Atlante marocchino, accampato in una tenda sul greto
sassoso di un torrente, a bere tè – che in comune col Mojito ha solo la menta –
e mangiare per il terzo giorno di fila lenticchie, carote e patate. Meglio o
peggio? Non è questo il punto, la questione è che vorrei vivere entrambe le
situazioni nello stesso istante. L’eterna insoddisfazione dell’essere umano.
Un altro motivo che mi viene in mente per giustificare il mio spleen
baudelairiano è la crisi d’astinenza tecnologica: da 4 giorni il telefono è
spento, non controllo l’e-mail, Facebook e non ho notizie dal mondo; potrebbe
essere scoppiata la terza guerra mondiale e io non lo saprei . Ma è soprattutto
l’astinenza da Social Network che si fa sentire con più insistenza, non poter
controllare spasmodicamente cosa ha postato Tizio o Caio.
Patologia? Probabilmente sì…e delle peggiori. Mi consolo con un libro
e facendo il bucato nel torrente gelido.
Anche stasera si va a letto presto.
Nessun commento:
Posta un commento