Stanotte ho dormito veramente male a causa di alcuni sassolini sotto
il mio sacco a pelo e di alcuni tarli nella mia testa. La solitudine
ingigantisce i pensieri, sia positivi che negativi. Fortunatamente la luce del
mattino ha risolto tutto.
Partiamo con calma seguendo lo wadi (torrente) M’Goun nella splendida
valle che ha scavato nei secoli, dando vita a formazioni rocciose che si ergono
imponenti verso il cielo; non incontriamo nessuno se non nomadi spersi,
soprattutto bambini – piccoli ma con gli occhi grandi – che sembrano quasi
intimiditi dalla mia presenza.
Camminiamo per circa 4 ore fino a giungere alla
confluenza di due fiumi dove sorge un rifugio abbandonato: dopo tre notti all’addiaccio
finalmente Mohammed e Moustafà dormiranno al chiuso.
Il vecchio rifugio è
chiuso e abbandonato, è stato distrutto dai nomadi che l’hanno usato come
riparo di fortuna durante le migrazioni invernali dal deserto quando, sorpresi
dalle tempeste di neve, vi si sono rifugiati con bambini e animali.
Il rifugio è di proprietà dello Stato e dipende dalla provincia di
Ouarzazat; peccato che per arrivarci dal capoluogo si debbano percorrere 70
chilometri in auto e due giorni a piedi. È difficile che la provincia se ne
prenda cura.
Mentre i miei amici berberi si accampano e si riposano io monto la
tenda su un prato vicino al torrente, a pochi metri sopra di me ci sono un paio
di casupole scavate nella roccia. Per il resto nulla, solo montagne intorno a
me.
Il pomeriggio passa tranquillo immerso nella lettura de “I pilastri
della terra”, mirabile saga medievale, e nella contemplazione del paesaggio.
Non sembra di essere in Africa, almeno non nell’Africa stereotipata che
abbiamo in mente; notti fredde e stellate, tempeste di neve: non è vero che l’Africa
è solo il continente nero e caldo.
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