Stanotte ho battuto i denti dal freddo, soprattutto al momento di
andare a dormire (alle 8 di sera) e al risveglio questa mattina alle 7. Ho
dormito con due paia di calze, due pantaloni, due magliette, un antivento, un
paille, la giacca a vento con il cappuccio e il cappello ben calcato in testa.
Ovviamente infilato nel sacco a pelo.
È stato un sonno inquieto, a sprazzi, interrotto dal rumore del vento
e dal mormorio del ruscello. Le mie sofferenze però sono state ripagate dalla
vista delle montagne illuminate dal sole all’alba.
Dopo la colazione a base di pane, olio d’oliva e marmellata di fragole
- uno strano mix - abbiamo velocemente smontato il bivacco e siamo partiti
verso il colle (a 3300 m) che ci separa dall’altopiano dove bivaccheremo
stasera. Davanti a noi un gruppo di francesi che abbiamo raggiunto alla prima
pausa: è contemporaneamente un sollievo e una delusione sapere di non essere
solo. Toglie un pizzico di sapore all’avventura ma in compenso dona sicurezza,
benché effimera, sapere che ci sono altri europei.
Parlo a lungo con Mohammed, mi racconta la sua storia che è
contemporaneamente la storia della valle in cui vive. Il primo turista, il
francese Bernard Ferry, arrivò nel 1965 e soggiornò presso lo zio di Mohammed,
utilizzandolo come guida per il primo trekking. Negli anni successivi tornò con
alcuni amici ma il primo vero e proprio tour fu organizzato nel 1985 e
successivamente sorsero agenzie marocchine e straniere che cominciarono a
organizzare pacchetti turistici. Il posto rimane selvaggio e semisconosciuto,
basti pensare che l’elettricità è arrivata 7 anni fa e nei villaggi più alti e
isolati solo 4 anni fa.
Continuiamo la nostra ascesa fino alla cresta dove si apre la vista
magica e suggestiva dell’altopiano di Tarkeddid e del M’Goun, poi iniziamo la
lenta discesa verso il rifugio dove piantiamo la tenda. Ci riposiamo e mangiamo
una gustosa insalata: il menù è buono ma un po’ ripetitivo, insalata e tajin di
verdure, ogni tanto lenticchie, niente carne.
Nel frattempo arrivano tre ragazzi francesi senza guida, di ritorno
dalla vetta; sono bretoni, quindi probabilmente pazzi: uno in particolare ha il
viso da marinaio, orecchino e barba rossiccia da lupo di mare sopravvissuto a
mille tempeste.
Nel pomeriggio mi avvio da solo lungo l’altipiano, cammino per un’ora
tra greggi di pecore e muli al pascolo fino al punto in cui la valle si stringe
dando luogo a strette gole cosparse di massi erratici.
Il mio passaggio non è
gradito ai nomadi che pascolano gli armenti, uno mi fà un cenno scocciato con
la mano come a dire “vattene”, un altro mi si para minaccioso in mezzo al
sentiero. È solo un ragazzino, a gesti mi fa capire che ho fotografato le sue
pecore. E se anche fosse? Ho rubato loro l’anima? Da quando le pecore hanno
un’anima?
Lo scosto bruscamente dalla mia strada e torno al rifugio, inizia a
fare freddo, siamo a 3000 metri e soffia un vento gelido, inoltre si è
rannuvolato come ieri sera. Nemmeno stasera vedrò le stelle, vuoi per le
nuvole, vuoi perché sono le 8 e sto per andare a letto: d’altra parte le serate
sull’altopiano non offrono molti svaghi. Mohammed mi ha dato un giaccone
pesante, spero che basti a proteggermi dal freddo.
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