lunedì 22 giugno 2015

La salita all’altopiano di Tarkeddid

Stanotte ho battuto i denti dal freddo, soprattutto al momento di andare a dormire (alle 8 di sera) e al risveglio questa mattina alle 7. Ho dormito con due paia di calze, due pantaloni, due magliette, un antivento, un paille, la giacca a vento con il cappuccio e il cappello ben calcato in testa. Ovviamente infilato nel sacco a pelo.
È stato un sonno inquieto, a sprazzi, interrotto dal rumore del vento e dal mormorio del ruscello. Le mie sofferenze però sono state ripagate dalla vista delle montagne illuminate dal sole all’alba.


Dopo la colazione a base di pane, olio d’oliva e marmellata di fragole - uno strano mix - abbiamo velocemente smontato il bivacco e siamo partiti verso il colle (a 3300 m) che ci separa dall’altopiano dove bivaccheremo stasera. Davanti a noi un gruppo di francesi che abbiamo raggiunto alla prima pausa: è contemporaneamente un sollievo e una delusione sapere di non essere solo. Toglie un pizzico di sapore all’avventura ma in compenso dona sicurezza, benché effimera, sapere che ci sono altri europei.
Parlo a lungo con Mohammed, mi racconta la sua storia che è contemporaneamente la storia della valle in cui vive. Il primo turista, il francese Bernard Ferry, arrivò nel 1965 e soggiornò presso lo zio di Mohammed, utilizzandolo come guida per il primo trekking. Negli anni successivi tornò con alcuni amici ma il primo vero e proprio tour fu organizzato nel 1985 e successivamente sorsero agenzie marocchine e straniere che cominciarono a organizzare pacchetti turistici. Il posto rimane selvaggio e semisconosciuto, basti pensare che l’elettricità è arrivata 7 anni fa e nei villaggi più alti e isolati solo 4 anni fa.  
Continuiamo la nostra ascesa fino alla cresta dove si apre la vista magica e suggestiva dell’altopiano di Tarkeddid e del M’Goun, poi iniziamo la lenta discesa verso il rifugio dove piantiamo la tenda. Ci riposiamo e mangiamo una gustosa insalata: il menù è buono ma un po’ ripetitivo, insalata e tajin di verdure, ogni tanto lenticchie, niente carne.


Nel frattempo arrivano tre ragazzi francesi senza guida, di ritorno dalla vetta; sono bretoni, quindi probabilmente pazzi: uno in particolare ha il viso da marinaio, orecchino e barba rossiccia da lupo di mare sopravvissuto a mille tempeste.
Nel pomeriggio mi avvio da solo lungo l’altipiano, cammino per un’ora tra greggi di pecore e muli al pascolo fino al punto in cui la valle si stringe dando luogo a strette gole cosparse di massi erratici. 


Il mio passaggio non è gradito ai nomadi che pascolano gli armenti, uno mi fà un cenno scocciato con la mano come a dire “vattene”, un altro mi si para minaccioso in mezzo al sentiero. È solo un ragazzino, a gesti mi fa capire che ho fotografato le sue pecore. E se anche fosse? Ho rubato loro l’anima? Da quando le pecore hanno un’anima?
Lo scosto bruscamente dalla mia strada e torno al rifugio, inizia a fare freddo, siamo a 3000 metri e soffia un vento gelido, inoltre si è rannuvolato come ieri sera. Nemmeno stasera vedrò le stelle, vuoi per le nuvole, vuoi perché sono le 8 e sto per andare a letto: d’altra parte le serate sull’altopiano non offrono molti svaghi. Mohammed mi ha dato un giaccone pesante, spero che basti a proteggermi dal freddo.



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