domenica 21 giugno 2015

Mohammed, Moustafà e il mulo senza nome

Stamattina ho fatto la conoscenza di Mohammed, la guida, di Moustafà, il mulattiere, e del mulo senza nome. I berberi non danno nomi ai muli.
Dopo aver stipato la povera bestia, un po’ macilenta e spelacchiata, di ogni genere di cibo e attrezzatura, compresa la tenda e la bombola del gas, ci incamminiamo lungo un sentiero che attraversa campi e frutteti, pieni di vecchi, giovani e donne velate che lavorano alacremente.


Mohammed, l’unico dei due che parla francese, mi racconta della Vallée Hereuse, la valle Fortunata, a quasi 2000 metri di quota, composta da circa una trentina di villaggi, circa 60 famiglie e un migliaio di persone che la abitano tutto l’anno vivendo prevalentemente di agricoltura e di un po’ di turismo estivo. Mohammed ha 8 figli, 6 femmine e 2 maschi, si è sposato a 15 anni, ne ha 42 e sembra mio padre: si invecchia presto in questi posti. Le donne sono perlopiù sdentate e ingobbite dal duro lavoro nei campi.


La valle è fertile, il panorama magnifico e il cielo smaltato di un azzurro carico; lasciamo la valle principale per una secondaria e improvvisamente appare, in una fenditura tra le rocce, Ighil M’Goun, alto, roccioso, con vasti nevai, massiccio ma non imponente come altre montagne che ho visto. Il percorso si snoda in una valle verdissima con terrazze coltivate a grano, in fondo alle gole tortuose scorre il torrente limpido e possente.


Ci fermiamo per pranzo e ammiro la perizia con cui Mohammed e Moustafà slegano il basto del mulo e preparano un’ottima insalata con sardine. Dopo pranzo mi appisolo al sole e vengo svegliato dal sopraggiungre di quattro tedeschi con relativi muli, mulattieri e guide che arrivano dalla Valle delle Rose a 7 giorni di marcia da qui. Sono stupiti di trovare un italiano solitario su per le montagne; devo dire che speravo di trovare altri trekkers ma così non è quindi devo fare i conti con la mia solitudine di vagabondo.
Il M’Goun è la seconda cima più alta del Marocco, la prima è il Toubkal; avrei potuto scegliere un trekking sul Toubkal, più vicino a Marrakech, più facile e sicuramente più battuto.
“Perché non hai scelto la prima?” Perché a volte la prima non è la più sfidante o quella che dà più soddisfazione. Pensate al K2 rispetto all’Everest. Tanti scalano l’Everest perché è relativamente “facile”; pochi hanno l’ardire di attaccare il K2, molto più difficile da raggiungere e più impegnativo. Allo stesso modo io ho scientemente scelto il M’Goun, distante da Marrakech un giorno di autobus e due giorni di marcia, in questo angolo di mondo sperduto, la valle dell’orgoglio berbero.
Saluto i tedeschi che scendono a valle e saliamo per un’altra ora fino al luogo del nostro bivacco notturno, uno spiazzo pietroso di fianco a un ruscello; io dormirò in tenda, i miei accompagnatori sotto le stelle, avvolti nelle coperte. Montata la tenda senza picchetti – o meglio con dei picchetti di fortuna rimediati nel bosco – il pomeriggio scorre lento e sonnacchioso, al ritmo del mormorio del torrente, tra un libro e un tè, il whisky berbero, come dicono loro.




Osservo quanto mi circonda, siamo in una valle ancora più laterale, la parete rivolta a nord è verde e cespugliosa, quella sud arida e pietrosa. Si rannuvola, il sole dà tregua, anche se in realtà temo più il freddo della notte che il caldo del giorno perché sono poco coperto; mal che vada indosserò tutti i vestiti che possiedo e soffrirò il freddo chiuso nella mia tenda. 


sabato 20 giugno 2015

La lunga strada verso l’Atlante

Oggi è il giorno in cui mi muovo verso le montagne. Mi dirigo alla stazione degli autobus , la Gare Routiére, per comprare il biglietto per Azilal. Ho un’ora e mezza di attesa , ne approfitto per visitare i giardini di El Harti, una piccola oasi di silenzio nel traffico caotico della città.
La stazione degli autobus assomiglia a tutte le altre stazioni che ho visto in Nordafrica e Asia: code di persone che attendono pazienti, quasi rassegnate, individui dall’aria affacendata dividono i viaggiatori in base alla destinazione e li indirizzano alla piattaforma giusta. Mi metto in attesa anche io e osservo un meccanico che finisce di cambiare la ruota dell’autobus davanti alla mia banchina, che non sembra per nulla affidabile.
I passeggeri si svegliano subitaneamente dal loro torpore, si alzano tutti contemporaneamente e corrono verso un’altra banchina e i bigliettai strillano “Azilal, Azilal”. Salgo su un autobus che sembra parecchio più nuovo del precedente , chiaramente strapieno; ovviamente sono l’unico straniero. Trovo posto in penultima fila, accanto a un tipo strano, coi denti rossi macchiati di tabacco, che borbotta due parole di francese. È incuriosito, mi chiede dove vado dopo Azilal, rispondo che non lo so: sono stufo di gente interessata morbosamente ai miei spostamenti. Lui va alle cascate d’Ouzoud, io sono diretto alla valle di Aït Bouguemez, punto di inizio del mio trekking, della salita al M’Goun.
Prima della partenza sul bus sale qualsiasi tipologia di essere umano, mendicanti senza braccia, venditori di cibo, fazzoletti e scarpe, un uomo distribuisce il Corano a tutti i passeggeri – io declino con cortesia, ho paura che mi venga la nausea a leggere in pullman.
Finalmente si parte e siamo già nell’ingorgo ancora prima di uscire dalla stazione dei bus, tutti gli autobus in partenza si accalcano verso lo stretto pertugio che costituisce l’uscita, convulsi colpi di clacson, urla, improperi e gestacci da parte degli autisti. Da Marrakech ad Azilal sono 150 chilometri che percorriamo alla fantasmagorica velocità di 40 km/h, compresa la pausa a metà strada per il pranzo. Ci fermiamo in un villaggio lungo la strada, tutti si lanciano giù dal bus e si siedono a tavola a mangiare tajin e kebab. Io, visto il caldo e il viaggio ancora lungo, mi accontento di un po’ di frutta fresca.
A metà pomeriggio arriviamo ad Azilal, sperduta cittadina nel desrto, eppure capoluogo di una provincia del Marocco centrale. Oggi, come in tutti gli altri giorni che Allah manda in terra, è giorno di mercato, un souk polveroso e incasinato, con venditori di succo d’arancia che stazionano con la loro bancarella ai margini del parcheggio dei bus, una folla cenciosa e disordinata si muove senza tregua, contratta, urla, prega.


Essendo l’unico straniero vengo subito individuato dal ras della piazza, l’organizzatore dei pullmini collettivi, “Transport Mixte”, che mi porteranno a destinazione; mi porge il biglietto e sul retro mi scrive l’indirizzo di un hotel dove pernottare e verosimilmente trovare una guida. Hassan ha 34 anni – anche se sembra mio padre – è berbero, si muove con disinvoltura tra pullman, pullmini, camion e carretti e fà tutto con una mano sola, la destra: scrive, strappa biglietti, prende soldi, dà resti, indica gli autobus in partenza. Nella mano sinistra, tra l’indice e il medio, tiene ben stretto fasci di banconote divise per taglio.



Dopo quasi un’ora di attesa salgo sul pullmino e trovo un posto singolo vicino al finestrino; Hassan sale e mi porge il suo cellulare: “è la guida, parla”. Husayn la guida parla un francese discreto e mi assicura che verrà a intercettarmi al Gite d’Etape, l’albergo rifugio. Non ho dubbi, da queste parti hanno un’efficacissima catena di trasmissione delle informazione (e dei soldi del clienti), nulla è lasciato al caso.
Quando il veicolo è pieno partiamo, siamo stracarichi di persone e oggetti, soprattutto angurie, caricate sul tetto insieme al mio zaino. All’interno un paio di persone hanno piazzato dei bassi sgabelli di plastica in mezzo al corridoio e si accomodano così. Man mano che si prosegue continuiamo a caricare persone; arriviamo a essere 24 su un mezzo omologato per 16. In ultima fila c’è una coppia di giovani, lei inizia a vomitare dopo dieci minuti e andrà avanti tutto il viaggio; scenderà, pallida come un cencio e traballante sulle gambe, a pochi chilometri dal capolinea. Magari è in cinta oppure ha semplicemente mangiato pesante; io per non sbagliare mi sono tenuto leggero.
Il viaggio dura tre ore lungo una strada miracolosamente asfaltata, tortuosa e a strapiombo su lontani torrenti impetuosi e limacciosi. Pian piano i passeggeri vengono lasciati alle loro case, io sono l’ultimo, ormai è quasi buio e mi chiedo che ne sarà di me in questa valle sconosciuta che assomiglia alla valle di Dracula nel film di Coppola.


Arriviamo a Tabant, anzi un sobborgo. Definirlo paese è esagerato, sono tre case su un sentiero sterrato; vengo accolto da Husayn che mi introduce in una casa berbera di cui sono l’unico ospite.

Mi aspettavo altri trekkers ma la guida mi dice che quest’anno c’è poco movimento; non so se lo dice per impietosirmi e strapparmi un prezzo più alto. Tira fuori la carta e mi mostra due alternative: la Boucle e la Traversée, l’anello del massiccio del M’Goun o la traversata fino alla Valle delle Rose. La seconda sarebbe fantastica ma va oltre le mie possibilità economiche e me la tengo per la prossima volta. Inizia una trattativa serrata sul prezzo davanti a una caraffa di tè bollente e speziato. Sono le 9 di sera, non ho mangiato e inizio a essere stanco e nervoso; mi spara un prezzo per il tour senza guida, solo col mulattiere. Gli faccio una controproposta, lui ci pensa su ed esce per il paese alla ricerca del mulattiere. Mentre mangio la tajin di pollo e verdure che mi ha preparato Mohammed, il ragazzo quattordicenne che sta in cucina, rifletto e decido che è meglio avere anche la guida. Quando Husayn torna trafelato formulo la controfferta, lui ci pensa, fà due calcoli ed esce a cercare anche la guida; torna affannato per dirmi che l’affare è concluso: domattina alle 8 si parte con guida, mulattiere, mulo e tenda per il giro del M’Goun.


Un giorno di ordinaria follia a Marrakech

Esco alla scoperta della citta. La Koutobia è il simbolo della città, la torre del minareto svetta sulla medina e la sera, illuminata da mille luci, è uno spettacolo da Mille e una notte.


Vengo intercettato dal solito venditore d'artigianato, sdentato che parla due parole d'Italiano. Subito passiamo al francese...non che sia molto meglio. 

Cerca di convincermi a fare una puntata nel suo bazar "Seulement pour voir, mon ami" ma presto si accorge che sono il peggior cliente della terra e mi lascia andare. 
Vado in banca a cambiare: qua invece che prendere il numerino devi lasciare il documento sul bancone, insieme a quello degli altri, e poi il bravo impiegato serve 3 clienti contemporaneamente. Io gli ho dato 100 euro e lui mi ha accreditato un mese di pensione marocchina.
Si sentono mille odori nelle strade; ora sono seduto su una panchina e mi viene al naso profumo di mandorle tostate. 
Visito le tombes Saadiennes costruite in bianco marmo di Carrara e penso a quanto sia pregiato questo materiale tutto italiano, a come siamo fortunati ad avere le più grandi cave di uno dei materiali da costruzione più desiderati al mondo. 
Mi godo un tè alla menta in un bar su uno degli incroci più incasinati che abbia mai visto, pullman, motorini - vecchi Peugeot ad avviamento a pedale - carretti trainati da asini tanto magri quanto spelacchiati. Macchine e furgoni si fermano in continuazione in mezzo all'incrocio per caricare o scaricare persone e pacchi ma questo non sembra preoccupare né tantomeno irritare l'automobilista medio marocchino che - sospirando Inshallah - allarga le braccia in attesa che il flusso riprenda lento e incostante. 





Un venditore di tappeti mi trascina nel suo bazaar millantando la conoscenza di un amico Emilio Qualchecosa, dentista a Milano. Qui tutti hanno amici, o amici di amici, in Italia.
Io schivo contrattazione e acquisto di qualsiasi bene, dalle spezie ai tappeti, affermando di non avere spazio, soldi, lavoro, moglie e famiglia.
Sono l'ultimo degli ultimi, un pellegrino nullatenente interessato solamente a comprare momenti e visioni, colori e odori.
Non posso mettermi il Marocco nello zaino, me lo metto negli occhi e nel cuore.
Entro al Palais el Bahia, capolavoro dell'architettura arabo-marocchina: dal rumore del traffico vengo catapultato in un piccolo paradiso dove gli aranci rinfrescano i riad e le corti. Sono sempre affascinato dalle decorazioni di maiolica colorata che riproducono solamente forme geometriche, le stesse da Agra a Siviglia, da Istanbul a Marrakesch. Il Corano vieta la riproduzione di figure umane o animali - giacché questa è prerogativa di Allah - e così gli architetti musulmani hanno dato sfogo alla fantasia creando, appunto, gli arabeschi, finissimi intrecci di fantasia che si mescolano a fiori e versi sacri. 
Ho molte sensazioni di deja-vu: da Granada, Cordoba e Siviglia, al Taj Mahal, alle splendide moschee di Delhi, da Santa Sofia e Topkapi ai patios nascosti di Palma de Mallorca, l'architettura islamica si replica all'infinito, uguale a se stessa eppur diversa. 
Il grande cortile bianco contornato da colonne ottagonali con piccole venature blu è scintillante e mi ferisce gli occhi: non riesco a sopportarne la vista senza che mi lacrimino gli occhi. Due bambini, uno vestito di rosso, l'altro di blu, compiono evoluzioni sul candido marmo: il contrasto cromatico stordisce i sensi.



Ho scoperto che nessuno dei 2 bancomat funziona in nessuna banca marocchina, quindi mi devo far bastare i soldi che ho: la cosa non dovrebbe essere difficile, visto che qui si mangia con cinque/sei euro e si dorme più o meno con la stessa cifra. Per risparmiare ho deciso che prenderò la guida direttamente ad Agouti dove inizia il trekking. Domani parto in autobus verso l'Atlante. Intanto per rilassarmi mi sono fatto un bagno nella piccola piscina del riad e poi mi sono messo alla ricerca di un ristorante. 

La medina di Marrakech è un maledetto labirinto, ti inoltri nei vicoli, fai 3 curve, passi sotto 3 case e ti trovi in un cul de sac. Ho trovato l'uscita dall'hotel solo al terzo tentativo; mi sono inoltrato nel souk e ho scovato una chicca: il vicolo dei fabbri. Un'intera via dedicata esclusivamente alla lavorazione del ferro.
Nel souk decine e decine di motorini sfrecciano a velocità folle, facendo pericolosamente il pelo ad ogni genere di mercanzia stipata negli anfratti delle botteghe. Ho appena visto una donna sfrecciare in motorino con bebè avvolto in uno scialle rosso a mo' di marsupio: in Italia un'azione così sarebbe punita con il ritiro simultaneo di patente e patria potestà.





Dopo un tramonto spettacolare con vista sui tetti color ocra di Marrakech, vado a cena ai mitici banchetti di Jemaa el Fna. Mi siedo al banchetto del venditore di lumache e per 10 Dirham mi faccio una scorpacciata di gustosi molluschi. La piazza è un orgasmo di luci, suoni, colori, gente, venditori di cibo che ti trascinano da qualsiasi parti e cercano di farti sedere ai tavoli.





Sapore d'Africa


Il sapore d'Africa inizia sulla scaletta dell'aereo a Malpensa: pochi italiani, donne velate, stranieri di differenti nazionalità, coppie miste italo-qualcos'altro, un cantante senegalese che si intorta tutte le donne che si imbarcano, una donna dalle fattezze assai poco femminili allatta prima del decollo, bambini scalzi corrono avanti e indietro per tutta la durata del volo. Di fianco a me un signore talmente grasso che la hostess è costretta a dargli un'estensione della cintura di sicurezza. Dall'altra parte una ragazza italo-marocchina che va a trovare i parenti. Volo tranquillo, si atterra, scendo dalla scaletta e assaporo il profumo di mamma Africa. Non è l'afrore dell'equatore ma piuttosto il clima temperato maghrebino. Ad ogni modo fà meno caldo che a Milano.

Scatta la gara di corsa: qua è usanza fare i 100 metri piani per arrivare primi al controllo passaporti ed evitare la coda. In realtà me la cavo in 10 minuti e faccio il mio ingresso ufficiale nel Royaume du Maroc. 
Tutti prendono i taxi dall'aeroporto, io opto per il 19, un comodo autobus che per soli 30 Dirham mi lascia a Jemaa El Fna, la piazza più grande e famosa di tutto il Marocco. Un enorme mercato, ballerine che danzano velate, cantori, allevatori di pulcini colorati di tinte innaturali, gente che vende, compra, ruba, parla, canta, mangia...cibo dappertutto, spiedini di carne, verdura e frutta invitante. Sono sopraffatto dai colori e dai rumori. Come mi mancava tutto questo: la confusione, i vicoli del souk con biciclette e motorini che sfrecciano e suonano. L'impressione è che il Marocco sia una piccola India, pulita, ordinata, meno popolata e in cui la gente non muore di fame per strada. 
Domani mi farò un'idea più precisa. Intanto sono alloggiato in un riad in perfetto stile moresco, con piscina. 

Avevo appena finito di dire "com'è pulito sto posto" che si è intasato il cesso e la merda è venuta a galla. Sono andato in reception per vedere cosa si potesse fare e un solerte addetto, dopo aver preso atto della situazione, ha allargato le braccia e mi ha cambiato stanza. Sono passato da una stanza da 8 a una da 4 (allo stesso prezzo). 
Good deal...speriamo non esploda qualcosa. Domani mi lancio alla scoperta della città.

Marocco

Sto partendo per il Marocco. Obiettivo: arrivare sulla cima dell'Ighil M'Goun (4071 m) usando nell'ordine Bikemi, Malpensa Shuttle, aereo Easyjet, bus marocchini vari e gambe del pellegrino. Parto da casa col Bikemi e lo zaino sulle spalle sperando di non stramazzare sotto il sole del pomeriggio. 

lunedì 11 novembre 2013

India e ancora India!

Mercoledì vado a Treviso a vedere la mostra "Magie dell'India. Dal tempio alla corte, capolavori d'arte indiana". E' un'occasione per vedere Treviso che non conosco (mea grandissima culpa!).

Lunedì 18 novembre, alle 18,30, presso la libreria Feltrinelli di Corso Buenos Aires 33, a Milano si terrà la presentazione del libro "Italian Cricket Club" di cui ho parlato nell'altro blog.
Saranno presenti gli autori, Giacomo Fasola, Ilario Lombardo e Francesco Moscatelli.


domenica 3 novembre 2013

Modena, la bellezza inattesa

Da quando ho abbandonato la vita d'ufficio sto girando come un matto su e giù per l'Italia alla ricerca e scoperta di luoghi fantastici da proporre ai mille e mille turisti stranieri che bramano per venire alla scoperta del nostro paese.

Una delle scoperte più belle è stata Modena e la sua provincia: città romana, Mutina ha 2200 anni di storia; prima gli Etruschi, poi i Galli e infine i Romani hanno posto le basi per la nascita e lo sviluppo di questa bellissima città che giace sulla via Emilia.

Modena è di una bellezza inaspettata, forse oscurata dalla vicina Bologna, e lontana dai classici giri turistici. Al viaggiatore attento è capace di riservare sorprese come il Duomo in purissimo stile romanico, iniziato nel 1099 dall'architetto Lanfranco, probabilmente originario di Como, e portato a termine dallo scultore Wiligelmo e dai Maestri Campionesi, anch'essi originari del nord Italia.
Di fianco al Duomo, la Ghirlandina, una torre pendente che nulla ha da invidiare alla molto più famosa torre di Pisa.



A questo punto sorge spontanea la domanda: perchè dall'estero arrivano frotte di turisti a vedere la torre di Pisa, a fare le foto fingendo di tenere su la torre e si portano a casa il modellino da 5 euro mentre la Ghirlandina è conosciuta da pochi (anche Italiani)? Secondo me, come per lo Champagne, è questione di marketing...
Pisa è un brand, Modena no.

Altrettanto interessanti sono alcune perle della provincia: oltre al Museo Ferrari di cui parlo qui, Sassuolo e Vignola.
La prima si fa apprezzare per il monumentale Palazzo Ducale trasformato da castello in sfarzoso palazzo da Francesco I d'Este all'inizio del '600. Decine di sale sfarzosamente affrescate si susseguono e l'occhio del visitatore non è mai stanco di passare dalle scene dell'antichità classica alle istantanee delle corti europee barocche.


Dulcis in fundo Vignola, adagiata sul fiume Panàro; qui la turrita Rocca di Vignola fa piombare di colpo il viaggiatore in un medioevo fatto di guerre tra città confinanti e scene di vita rinascimentale, come si può vedere nello splendido affresco della Sala del Padiglione che ritrae due nobili sposi di metà '400.
Al tramonto la luce dorata incanta l'occhio e il tempo viene sospeso per un istante; ogni rumore cessa e sembra di sentire il clangore delle alabarde dei soldati che fanno il giro di guardia sui camminamenti del castello, scrutando l'orizzonte alla ricerca di eserciti nemici che si avvicinano.

Se non è medioevo questo...