lunedì 29 giugno 2015

Dalle stelle alle stalle

I miei piani erano di andare a Imlil e provare l’ascesa al Toubkal, la montagna più alta del Nordafrica; avevo pianificato tutto: grand-taxi fino a Imlil, oppure bus fino ad Asni e poi taxi. Peccato che non ci siano bus fino ad Asni – almeno così mi han detto alla gare routiére – e i taxi costano un botto: 600 Dirham il primo prezzo, 400 l’ultimo. Io ero disposto ad arrivare fino a 200 ma quando è troppo è troppo.
La sfortuna di viaggiare da solo alle volte.
Dopo un frenetico ping pong tra la stazione dei bus e quella dei taxi, con lo zaino, sotto un sole cocente, facendo lo slalom tra motocarrozzelle, bambini, carretti, mendicanti, venditori di frutta, indovini, spacciatori d’hashish, procacciatori d’affari, donne velate, individui barbuti e tutto il grande circo, mi do per vinto.




D’altra parte lo diceva anche Mick Jagger: “You can’t always get what you want”. Impara, Stefano, impara.
Cambio meta e compro un biglietto per Essaouira, vado a respirare l’oceano e a riempirmi gli occhi d’infinito.



Mi è capitato tante volte di vedere i camion con le persone sul tetto ma un camion con le mucche sul tetto mai. Mucche vive che brucano. Sto sognando, ho fumato qualcosa? No, è tutto dannatamente vero. Se si ribalta fanno il contrario degli accumulatori: disperdimucche. Ok, ok, la smetto, ma non è mia questa, è di Groucho.
Appena arrivato a Essaouira e sceso dal bus vengo intercettato da Ahmed (che fantasia coi nomi) che mi propone un albergo; è l’una, il sole è a picco e non ho voglia di sbattermi a cercare per conto mio così decido di lasciarmi guidare dall’onda lunga della fiducia nell’essere umano. Ahmed mi conduce nella medina, in un piccolo albergo che fa al caso mio; per 100 Dirham a notte mi installo in una piccola ma confortevole camera al secondo piano.
Essaouira mi ricorda Alghero: città fortificata dal colore bianco e azzurro, rivolta a ovest verso il mare aperto, con un porto fiorente, crocevia di culture e commercio, intreccio di storie e popoli e dal sapore un po’ catalano, soprattutto per la quantità spropositata di magliette del Barça che si vedono in giro.



Passo il pomeriggio in spiaggia a guardare i ragazzini che giocano a pallone, molti di loro hanno magliette dell’Italia; l’impressione è che il nostro paese sia molto più amato della Francia, loro antico colonizzatore.




Tento un bagno nell’Oceano Atlantico ma mi scoraggio in fretta: l’acqua e marrone, limacciosa e fredda. Siamo solo all’inizio dell’estate, ci saranno altre occasioni in mari più belli.

sabato 27 giugno 2015

Fermo lì, petit taxì

Sveglia presto e attesa del taxi collettivo che mi riporterà ad Azilal e poi da lì chissà dove; ci mette circa un’ora per raccogliere tutta la gente del villaggio: l’autista ogni volta che incrocia un altro veicolo si ferma e inizia uno scambio di battute i berbero stretto, per me assolutamente incomprensibile se non per le ultime due parole, waha “d’accordo” e jalla “andiamo”. Il contachilometri è rotto in compenso la radio funziona benissimo e l’autista spara a tutto volume la preghiera coranica per due ore; io prego di arrivare intero, visto come guida, ma soprattutto di arrivare in fretta perché le mie orecchie non ce la fanno più. È come se noi ascoltassimo Radio Maria per due ore di fila: c’è da uscirne pazzi.
Finalmente arriviamo alla stazione dei bus di Azilal dove ritrovo Hassan, il capo bigliettaio; gli chiedo indicazioni per andare alle cascate di Ouzoud, la principale attrattiva della zona. Mi indirizza verso la stazione dei petit taxi, un fenomeno tipicamente marocchino: un’auto – quasi sempre una berlina Mercedes con almeno 200.000 chilometri – viene riempita, anzi stipata, con sei persone, oltre all’autista. Ovviamente non parte finchè non è piena ma io sono abbastanza fortunato perché si riempie in mezzora; in quel lasso di tempo ho modo di osservare le dinamiche d’acquisto dei biglietti: il bigliettaio è seduto a un tavolo chiuso per tre quarti da un passamano in ferro attorno a cui si accalcano le persone senza un ordine, che urlano la propria destinazione e gli porgono i soldi che lui incassa e pone sotto delle mattonella di metallo – immagino che ognuna di esse rappresenti una destinazione. Una volta completato il carico si viene magicamente indirizzati verso l’auto giusta. Il bigliettaio è coadiuvato da aiutanti che urlano, come i bagarini fuori dalla stadio, nomi di località sconosciute.
Finalmente arriva il mio turno, vengo indirizzato verso una Mercedes color panna acida e strizzato tra il finestrino e tre robusti signori; la maniglia della portiera è tenuta insieme con il fil di ferro, manca la manopola per abbassare il finestrino, il tachimetro è rotto ma in compenso abbondano i sacchetti per il vomito. Di fianco all’autista sono seduti nonna e nipotino; il ragazzino dopo dieci minuti chiede gentilmente un sacchetto e fa quello che deve tra l’imperturbabilità completa di tutti. Anzi qualcuno gli dà pure una pacca d’incoraggiamento sulla spalla.
L’autista deve aver gareggiato in F1 nella vita precedente; è vero che il tachimetro non funziona ma lui affronta le curve a velocità smodata, superando camion, inchiodando e schivando muli carichi, parlando al telefonino e spesso girandosi a parlare con gli altri o a guardare il panorama.
Arriviamo a Ouzoud, località abbastanza turistica, dove un piccolo torrente precipita per oltre 30 metri dando luogo a splendide cascate. 



La discesa verso il basso è un passaggio infernale tra ristoranti, bar e venditori di chincaglierie. Non è proprio il mio genere e medito di scappare appena possibile: cerco di imbarcarmi clandestinamente su un bus turistico in direzione Marrakech ma senza successo così non mi resta che prendere un altro petit taxi che mi riporti ad Azilal. Peccato che sono le tre del pomeriggio, fa un caldo atroce e non ci siano molti viaggiatori; mi accomodo all’ombra di un ulivo in attesa dei miei prossimi compagni di viaggio. Finalmente, a poco a poco, troviamo gli altri cinque disperati che si pigiano in taxi con me e partiamo. Ritorno ad Azilal, scendo alla stazione dei bus, mi informo sul prossimo bus per Marrakech ma con mio grande disappunto il primo sarà domattina.
Ok, no panic.
Nemmeno il tempo di riflettere su cosa fare che un tizio mi si avvicina in maniera concitata e mi fa: “Marrakech?”.
“Oui”.
“Vite, vite, viens avec moi…petit taxi”.
Non ci posso credere, ho avuto la botta di culo che una famiglia di 5 persone stesse cercando il sesto. Mi riaccomodo sulla Mercedes in compagnia di due manovali e delle rispettive mogli, tutte adeguatamente velate.


Io sono nel posto del morto, tra l’autista e il passeggero, con lo specchietto retrovisore a breve distanza dal lobo frontale. Se inchioda sono con la testa nel vetro e ogni volta che cambia marcia mi fa un massaggio alle chiappe; dopo mezzora ho una paresi alla gamba sinistra, innaturalmente piegata sull’altra. L’unico che bofonchia due parole di francese è il mio vicino perciò la conversazione langue; in compenso mi offrono qualsiasi tipo di cibarie e coca cola a non finire. Loro parlano concitatamente, a toni altissimi e tutti insieme, compreso l’autista, per cui a me non rimane altro che guardare la strada e pregare di non fare incidenti. Finalmente arriviamo a Marrakech, alla stazione dei bus, dove cerco un taxi locale che mi porti a Jemaa el Fna: mi han detto che una corsa dovrebbe costare tra i 7 e i 10 Dirham, il taxista me ne chiede 30 e inizia una contrattazione feroce che si chiude a 15 (1,50 euro). Che pacchia il Marocco.
Mangio un’ottima grigliata di agnello in piazza e mi dirigo all’Equity Point dove, oltre a trovare da dormire, mi rendo conto che hanno tolto l’ora legale da due giorni: ieri poco male che tanto ero in montagna ma oggi…è anche vero che qua gli orari sono relativi, bus e taxi partono quando si riempiono. Ora riposo e faccio i piani per domani.


venerdì 26 giugno 2015

Ritorno alla civiltà

Dormo male, freddo e umidità mi penetrano nelle ossa; nonostante tutto sono un homo metropolitanus e le notti in tenda – per quanto lascino in bocca il sapore di avventura – sono provanti. Mi sveglio intirizzito alle 6 e mi dirigo al rifugio: Mohammed mi accoglie con un largo sorriso, dice che era preoccupato per me, che ci potessero essere dei ladri o che qualcuno mi importunasse. Lo ringrazio per la sollecitudine, anche se tardiva, e rimarco il fatto di non essermi mai sentito minimamente minacciato da uomini o animali. Anzi, benché fossi sperduto in un cantuccio nascosto in una valle sperduta dell’Atlante marocchino, ho sempre avuto la sensazione di sicurezza, come se qualcosa o qualcuno mi proteggesse. Chiamatela fortuna che aiuta gli audaci, angelo custode o buona stella.
Una rapida colazione e ripartiamo; camminiamo fino a Tighramt (Kasbah in berbero) Aithmad, un’imponente costruzione abbandonata e mezza crollata, adagiata in un cono d’ombra, protetta dalla vivida luce del mattino.


Dobbiamo guadare nuovamente lo wadi gelato e mentre io decido di togliere scarpe e calze e dare sollievo ai miei piedi, Mohammed entra nel torrente con le scarpe…mah, usanze berbere, evidentemente.
Ci inoltriamo in una valle laterale e saliamo per un paio d’ore; Mohammed si sta riavvicinando a casa: lo capisco dal fatto che ha accelerato il passo e che saluta le poche persone che incontriamo, tra cui un pittoresco uomo che scende la valle a dorso di mulo, agghindato come un principe berbero – scarpe da ginnastica a parte.
La salita procede tra rocce frastagliate e imponenti fino a un valico che si affaccia sulla Vallée Heureuse, scendiamo veloci fino a incontrare Moustafà che ci ha preceduto, sempre accompagnato dal suo fedele mulo senza nome, per preparare il tè e il pranzo.


La mattina di cammino e una chiacchierata con Mohammed mi hanno permesso di mettere a fuoco alcuni concetti; uno di questi – forse il più importante – è “Non importa quello che hai ma quello che sei e soprattutto quello che sai”. Quello che hai lo puoi perdere, ti può venire rubato , si può rovinare ma quello che sei lo sarai sempre, in tutto o in parte e difficilmente lo potrai perdere. Quello che sai sarà tuo per sempre e definisce quello che sei. Ok, sembra una frase da cazzo di bacio Perugina ma è così.
Dopo pranzo salutiamo Moustafà che riporta il mulo al suo padrone; gli do un piccolo pourboire - da non confondersi col bakshish – una mancia, dopo che Mohammed mi ha detto che per questi cinque giorni di sbattimenti e notti al freddo si porta a casa solamente 300 Dirham (30 euro). Ciao Moustafà, abbiamo parlato poco ma ci siamo sempre capiti.
Mohammed e io riprendiamo a camminare sotto il sole cocente delle due del pomeriggio; avvicinandoci a Tabant incontriamo sempre più gente: noto la differenza tra le donne della Vallée des Roses, vestire interamente di nero, e quelle della Vallée Heureuse, abbigliate con colori sgargianti. Arriviamo al Gite da cui siamo partiti e ci accoglie Housayn che funge da coordinatore delle guide della valle. Mentre Mohammed ha un sorriso aperto e lo sguardo franco, Housayn è un po’ ambiguo, guarda di sottecchi, sembra che mi studi; il suo scrutarmi mi mette un po’ a disagio, ha qualcosa di furbesco col suo cappello consunto e sfilacciato, gli occhialini dalle lenti un po’ scure – sembra Gary Oldman in Dracula – i denti storti e un po’ cariati tra cui spiccano i due incisivi. Assomiglia alla volpe di Pinocchio o a qualche vecchio impresario teatrale, navigato e un po’ calcolatore. Tra me e me ho sempre l’impressione che mi stia chiedendo dei soldi.
Gli unici clienti della casa berbera sono due ragazzi inglesi di Manchester venuti per fare un paio di giorni di trekking in valle; sono in Marocco da una settimana e ne passeranno altre tre. Lei ha in programma di fare un semestre all’Accademia di Belle Arti a Venezia. Dopo una doccia rintemprante parto alla scoperta di Tabant, il capoluogo della valle, lungo un sentiero tra alberi da frutto e campi coltivati a grano e orzo. Il paese si rivela un villaggio squallido e polveroso, costituito da un’unica strada sterrata che lo attraversa, tra piccole botteghe che vendono chincaglieria, alimentari e bombole a gas, uno degli articoli più diffusi visto che la fornitura diretta non sembra essere arrivata in valle.
Ritorno in hotel e attendo la cena, il solito tajin di verdure con coscia di pollo: inizia e essere un po’ monotono ma mi sazia e tanto basta. Chiacchiero con Housayn che si rivela una persona interessante, parla anzi filosofeggia di ricchezza e povertà, dare e avere, vita e morte. Mi racconta che un giorno ad Azilal, nello stesso giorno, sono morti il più povero e il più ricco della città. Nonostante la differenza di ceto entrambi hanno avuto la stessa cerimonia, i corpi lavati avvolti in sudari bianchi e la preghiera dell’imam. Tanto simili nella morte quanto erano stati dissimili in vita. Mi ricorda “ ‘A livella” di Totò: la morte pareggia tutto.

Poi mi racconta di com’è difficile la vita in valle, a gennaio e febbraio, con mezzo metro di neve, e i bambini che escono la mattina con i sandali a – 10°. Durante un viaggio in Francia alcuni anni fa ha conosciuto un francese, pilota militare, che ogni anno porta vecchi vestiti per la popolazione della valle; il primo anno ne ha portati 100 chili, l’anno scorso 1000.     

mercoledì 24 giugno 2015

In mezzo scorre il fiume

Stanotte ho dormito veramente male a causa di alcuni sassolini sotto il mio sacco a pelo e di alcuni tarli nella mia testa. La solitudine ingigantisce i pensieri, sia positivi che negativi. Fortunatamente la luce del mattino ha risolto tutto.
Partiamo con calma seguendo lo wadi (torrente) M’Goun nella splendida valle che ha scavato nei secoli, dando vita a formazioni rocciose che si ergono imponenti verso il cielo; non incontriamo nessuno se non nomadi spersi, soprattutto bambini – piccoli ma con gli occhi grandi – che sembrano quasi intimiditi dalla mia presenza. 


Camminiamo per circa 4 ore fino a giungere alla confluenza di due fiumi dove sorge un rifugio abbandonato: dopo tre notti all’addiaccio finalmente Mohammed e Moustafà dormiranno al chiuso. 


Il vecchio rifugio è chiuso e abbandonato, è stato distrutto dai nomadi che l’hanno usato come riparo di fortuna durante le migrazioni invernali dal deserto quando, sorpresi dalle tempeste di neve, vi si sono rifugiati con bambini e animali.
Il rifugio è di proprietà dello Stato e dipende dalla provincia di Ouarzazat; peccato che per arrivarci dal capoluogo si debbano percorrere 70 chilometri in auto e due giorni a piedi. È difficile che la provincia se ne prenda cura.
Mentre i miei amici berberi si accampano e si riposano io monto la tenda su un prato vicino al torrente, a pochi metri sopra di me ci sono un paio di casupole scavate nella roccia. Per il resto nulla, solo montagne intorno a me.



Il pomeriggio passa tranquillo immerso nella lettura de “I pilastri della terra”, mirabile saga medievale, e nella contemplazione del paesaggio. Non sembra di essere in Africa, almeno non nell’Africa stereotipata che abbiamo in mente; notti fredde e stellate, tempeste di neve: non è vero che l’Africa è solo il continente nero e caldo.  


martedì 23 giugno 2015

Anabasi

Oggi è il gran giorno della salita a Ighil (“monte” in berbero) o Jebel (“monte” in arabo) M’Goun. Sveglia alle 5, colazione del campione, pane arabo, olio e marmellata di fragole – un “maipiùsenza”, lo devo importare in Italia – e partenza.
Sono le 5.30, è ancora buio, camminiamo con la lampada frontale; lentamente la luce si affaccia sull’altopiano, è un’alba nitida, cristallina, eterea. Il sole però non lo vederemo per un po’, ci inerpichiamo per un sentiero ripido di sfasciumi. 


Alcune chiazze di neve macchiano le pendici della montagna possente. Dopo 3 ore di sdrucciolii, scivolamenti e imprecazioni arriviamo in cresta; a sud una serie ininterrotta di catene montuose che terminano nei bastioni dell’Anti Atlante, a est la ferita profonda e verdeggiante della Valle delle Rose, a nord un mare di nuvole da cui spuntano solo le cime più alte, a ovest l’altopiano declina dolce verso il deserto. 



Seguiamo la cresta, rocciosa e ventosa per due ore e finalmente alle 10.30 siamo in cima. Penso a cosa urlerò una volta in vetta, voglio esternare tutta la mia gioia. Tutto quello che mi esce è un liberatorio “Hippyaye, figlio di puttana” (Bruce Willis docet). Ho raggiunto il mio obiettivo: il cuore scoppia di gioia, i polmoni lavorano tanto. Sono a 4067 metri.
Tira un vento da Coppa America ma nonostante tutto troviamo un cantuccio riparato e restiamo un’ora sulla cima a goderci il sole e la vista sul mondo che ci circonda.



Poi cominciamo la ripida discesa in uno scenario lunare; sembra di essere sul pianeta Tatooine di Guerre Stellari, solo che invece di essere spiati dai Sabbipodi, siamo seguiti dai nomadi che si palesano con i loro greggi di pecore nei luoghi più impensati a 3000 metri. A un certo momento Mohammed mi dice: “Lo vedi quel ragazzino?” e penso che stia scherzando; intorno a noi il nulla, ripide pareti di roccia che si sgretola. Invece aguzzando l’occhio in lontananza intravedo un apiccola figura abbarbicata alla montagna. Ci avviciniamo e scorgo una ragazzina che cammina con naturalezza indossando dei semplici mocassini su sentieri impervi dove io fatico a stare in piedi con gli scarponi da montagna.
Scendiamo lungo un torrente impetuoso, figlio dello scioglimento delle nevi del M’Goun, fino a incontrare il luogo dove Moustafà ha posizionato il bivacco; mulo e mulattiere hanno percorso un’altra strada perché l’animale non riesce a salire in vetta.



Improvvisamente mi scende la tristezza; cerco di capirne i motivi. Il primo pensiero è che ho raggiunto l’obiettivo e mi sento come svuotato, ho dato tutto in salita e ora sono vuoto, leggero.
Il secondo pensiero, più forte, è la solitudine: siamo io, una guida simpatica ma che non posso considerare amico, un mulattiere che parla solo berbero e un mulo spelacchiato. È  un sabato sera di giugno, potrei essere a Milano per aperitivi e invece sono in una sperduta valle dell’Atlante marocchino, accampato in una tenda sul greto sassoso di un torrente, a bere tè – che in comune col Mojito ha solo la menta – e mangiare per il terzo giorno di fila lenticchie, carote e patate. Meglio o peggio? Non è questo il punto, la questione è che vorrei vivere entrambe le situazioni nello stesso istante. L’eterna insoddisfazione dell’essere umano.
Un altro motivo che mi viene in mente per giustificare il mio spleen baudelairiano è la crisi d’astinenza tecnologica: da 4 giorni il telefono è spento, non controllo l’e-mail, Facebook e non ho notizie dal mondo; potrebbe essere scoppiata la terza guerra mondiale e io non lo saprei . Ma è soprattutto l’astinenza da Social Network che si fa sentire con più insistenza, non poter controllare spasmodicamente cosa ha postato Tizio o Caio.
Patologia? Probabilmente sì…e delle peggiori. Mi consolo con un libro e facendo il bucato nel torrente gelido.

Anche stasera si va a letto presto.

lunedì 22 giugno 2015

La salita all’altopiano di Tarkeddid

Stanotte ho battuto i denti dal freddo, soprattutto al momento di andare a dormire (alle 8 di sera) e al risveglio questa mattina alle 7. Ho dormito con due paia di calze, due pantaloni, due magliette, un antivento, un paille, la giacca a vento con il cappuccio e il cappello ben calcato in testa. Ovviamente infilato nel sacco a pelo.
È stato un sonno inquieto, a sprazzi, interrotto dal rumore del vento e dal mormorio del ruscello. Le mie sofferenze però sono state ripagate dalla vista delle montagne illuminate dal sole all’alba.


Dopo la colazione a base di pane, olio d’oliva e marmellata di fragole - uno strano mix - abbiamo velocemente smontato il bivacco e siamo partiti verso il colle (a 3300 m) che ci separa dall’altopiano dove bivaccheremo stasera. Davanti a noi un gruppo di francesi che abbiamo raggiunto alla prima pausa: è contemporaneamente un sollievo e una delusione sapere di non essere solo. Toglie un pizzico di sapore all’avventura ma in compenso dona sicurezza, benché effimera, sapere che ci sono altri europei.
Parlo a lungo con Mohammed, mi racconta la sua storia che è contemporaneamente la storia della valle in cui vive. Il primo turista, il francese Bernard Ferry, arrivò nel 1965 e soggiornò presso lo zio di Mohammed, utilizzandolo come guida per il primo trekking. Negli anni successivi tornò con alcuni amici ma il primo vero e proprio tour fu organizzato nel 1985 e successivamente sorsero agenzie marocchine e straniere che cominciarono a organizzare pacchetti turistici. Il posto rimane selvaggio e semisconosciuto, basti pensare che l’elettricità è arrivata 7 anni fa e nei villaggi più alti e isolati solo 4 anni fa.  
Continuiamo la nostra ascesa fino alla cresta dove si apre la vista magica e suggestiva dell’altopiano di Tarkeddid e del M’Goun, poi iniziamo la lenta discesa verso il rifugio dove piantiamo la tenda. Ci riposiamo e mangiamo una gustosa insalata: il menù è buono ma un po’ ripetitivo, insalata e tajin di verdure, ogni tanto lenticchie, niente carne.


Nel frattempo arrivano tre ragazzi francesi senza guida, di ritorno dalla vetta; sono bretoni, quindi probabilmente pazzi: uno in particolare ha il viso da marinaio, orecchino e barba rossiccia da lupo di mare sopravvissuto a mille tempeste.
Nel pomeriggio mi avvio da solo lungo l’altipiano, cammino per un’ora tra greggi di pecore e muli al pascolo fino al punto in cui la valle si stringe dando luogo a strette gole cosparse di massi erratici. 


Il mio passaggio non è gradito ai nomadi che pascolano gli armenti, uno mi fà un cenno scocciato con la mano come a dire “vattene”, un altro mi si para minaccioso in mezzo al sentiero. È solo un ragazzino, a gesti mi fa capire che ho fotografato le sue pecore. E se anche fosse? Ho rubato loro l’anima? Da quando le pecore hanno un’anima?
Lo scosto bruscamente dalla mia strada e torno al rifugio, inizia a fare freddo, siamo a 3000 metri e soffia un vento gelido, inoltre si è rannuvolato come ieri sera. Nemmeno stasera vedrò le stelle, vuoi per le nuvole, vuoi perché sono le 8 e sto per andare a letto: d’altra parte le serate sull’altopiano non offrono molti svaghi. Mohammed mi ha dato un giaccone pesante, spero che basti a proteggermi dal freddo.



domenica 21 giugno 2015

Mohammed, Moustafà e il mulo senza nome

Stamattina ho fatto la conoscenza di Mohammed, la guida, di Moustafà, il mulattiere, e del mulo senza nome. I berberi non danno nomi ai muli.
Dopo aver stipato la povera bestia, un po’ macilenta e spelacchiata, di ogni genere di cibo e attrezzatura, compresa la tenda e la bombola del gas, ci incamminiamo lungo un sentiero che attraversa campi e frutteti, pieni di vecchi, giovani e donne velate che lavorano alacremente.


Mohammed, l’unico dei due che parla francese, mi racconta della Vallée Hereuse, la valle Fortunata, a quasi 2000 metri di quota, composta da circa una trentina di villaggi, circa 60 famiglie e un migliaio di persone che la abitano tutto l’anno vivendo prevalentemente di agricoltura e di un po’ di turismo estivo. Mohammed ha 8 figli, 6 femmine e 2 maschi, si è sposato a 15 anni, ne ha 42 e sembra mio padre: si invecchia presto in questi posti. Le donne sono perlopiù sdentate e ingobbite dal duro lavoro nei campi.


La valle è fertile, il panorama magnifico e il cielo smaltato di un azzurro carico; lasciamo la valle principale per una secondaria e improvvisamente appare, in una fenditura tra le rocce, Ighil M’Goun, alto, roccioso, con vasti nevai, massiccio ma non imponente come altre montagne che ho visto. Il percorso si snoda in una valle verdissima con terrazze coltivate a grano, in fondo alle gole tortuose scorre il torrente limpido e possente.


Ci fermiamo per pranzo e ammiro la perizia con cui Mohammed e Moustafà slegano il basto del mulo e preparano un’ottima insalata con sardine. Dopo pranzo mi appisolo al sole e vengo svegliato dal sopraggiungre di quattro tedeschi con relativi muli, mulattieri e guide che arrivano dalla Valle delle Rose a 7 giorni di marcia da qui. Sono stupiti di trovare un italiano solitario su per le montagne; devo dire che speravo di trovare altri trekkers ma così non è quindi devo fare i conti con la mia solitudine di vagabondo.
Il M’Goun è la seconda cima più alta del Marocco, la prima è il Toubkal; avrei potuto scegliere un trekking sul Toubkal, più vicino a Marrakech, più facile e sicuramente più battuto.
“Perché non hai scelto la prima?” Perché a volte la prima non è la più sfidante o quella che dà più soddisfazione. Pensate al K2 rispetto all’Everest. Tanti scalano l’Everest perché è relativamente “facile”; pochi hanno l’ardire di attaccare il K2, molto più difficile da raggiungere e più impegnativo. Allo stesso modo io ho scientemente scelto il M’Goun, distante da Marrakech un giorno di autobus e due giorni di marcia, in questo angolo di mondo sperduto, la valle dell’orgoglio berbero.
Saluto i tedeschi che scendono a valle e saliamo per un’altra ora fino al luogo del nostro bivacco notturno, uno spiazzo pietroso di fianco a un ruscello; io dormirò in tenda, i miei accompagnatori sotto le stelle, avvolti nelle coperte. Montata la tenda senza picchetti – o meglio con dei picchetti di fortuna rimediati nel bosco – il pomeriggio scorre lento e sonnacchioso, al ritmo del mormorio del torrente, tra un libro e un tè, il whisky berbero, come dicono loro.




Osservo quanto mi circonda, siamo in una valle ancora più laterale, la parete rivolta a nord è verde e cespugliosa, quella sud arida e pietrosa. Si rannuvola, il sole dà tregua, anche se in realtà temo più il freddo della notte che il caldo del giorno perché sono poco coperto; mal che vada indosserò tutti i vestiti che possiedo e soffrirò il freddo chiuso nella mia tenda. 


sabato 20 giugno 2015

La lunga strada verso l’Atlante

Oggi è il giorno in cui mi muovo verso le montagne. Mi dirigo alla stazione degli autobus , la Gare Routiére, per comprare il biglietto per Azilal. Ho un’ora e mezza di attesa , ne approfitto per visitare i giardini di El Harti, una piccola oasi di silenzio nel traffico caotico della città.
La stazione degli autobus assomiglia a tutte le altre stazioni che ho visto in Nordafrica e Asia: code di persone che attendono pazienti, quasi rassegnate, individui dall’aria affacendata dividono i viaggiatori in base alla destinazione e li indirizzano alla piattaforma giusta. Mi metto in attesa anche io e osservo un meccanico che finisce di cambiare la ruota dell’autobus davanti alla mia banchina, che non sembra per nulla affidabile.
I passeggeri si svegliano subitaneamente dal loro torpore, si alzano tutti contemporaneamente e corrono verso un’altra banchina e i bigliettai strillano “Azilal, Azilal”. Salgo su un autobus che sembra parecchio più nuovo del precedente , chiaramente strapieno; ovviamente sono l’unico straniero. Trovo posto in penultima fila, accanto a un tipo strano, coi denti rossi macchiati di tabacco, che borbotta due parole di francese. È incuriosito, mi chiede dove vado dopo Azilal, rispondo che non lo so: sono stufo di gente interessata morbosamente ai miei spostamenti. Lui va alle cascate d’Ouzoud, io sono diretto alla valle di Aït Bouguemez, punto di inizio del mio trekking, della salita al M’Goun.
Prima della partenza sul bus sale qualsiasi tipologia di essere umano, mendicanti senza braccia, venditori di cibo, fazzoletti e scarpe, un uomo distribuisce il Corano a tutti i passeggeri – io declino con cortesia, ho paura che mi venga la nausea a leggere in pullman.
Finalmente si parte e siamo già nell’ingorgo ancora prima di uscire dalla stazione dei bus, tutti gli autobus in partenza si accalcano verso lo stretto pertugio che costituisce l’uscita, convulsi colpi di clacson, urla, improperi e gestacci da parte degli autisti. Da Marrakech ad Azilal sono 150 chilometri che percorriamo alla fantasmagorica velocità di 40 km/h, compresa la pausa a metà strada per il pranzo. Ci fermiamo in un villaggio lungo la strada, tutti si lanciano giù dal bus e si siedono a tavola a mangiare tajin e kebab. Io, visto il caldo e il viaggio ancora lungo, mi accontento di un po’ di frutta fresca.
A metà pomeriggio arriviamo ad Azilal, sperduta cittadina nel desrto, eppure capoluogo di una provincia del Marocco centrale. Oggi, come in tutti gli altri giorni che Allah manda in terra, è giorno di mercato, un souk polveroso e incasinato, con venditori di succo d’arancia che stazionano con la loro bancarella ai margini del parcheggio dei bus, una folla cenciosa e disordinata si muove senza tregua, contratta, urla, prega.


Essendo l’unico straniero vengo subito individuato dal ras della piazza, l’organizzatore dei pullmini collettivi, “Transport Mixte”, che mi porteranno a destinazione; mi porge il biglietto e sul retro mi scrive l’indirizzo di un hotel dove pernottare e verosimilmente trovare una guida. Hassan ha 34 anni – anche se sembra mio padre – è berbero, si muove con disinvoltura tra pullman, pullmini, camion e carretti e fà tutto con una mano sola, la destra: scrive, strappa biglietti, prende soldi, dà resti, indica gli autobus in partenza. Nella mano sinistra, tra l’indice e il medio, tiene ben stretto fasci di banconote divise per taglio.



Dopo quasi un’ora di attesa salgo sul pullmino e trovo un posto singolo vicino al finestrino; Hassan sale e mi porge il suo cellulare: “è la guida, parla”. Husayn la guida parla un francese discreto e mi assicura che verrà a intercettarmi al Gite d’Etape, l’albergo rifugio. Non ho dubbi, da queste parti hanno un’efficacissima catena di trasmissione delle informazione (e dei soldi del clienti), nulla è lasciato al caso.
Quando il veicolo è pieno partiamo, siamo stracarichi di persone e oggetti, soprattutto angurie, caricate sul tetto insieme al mio zaino. All’interno un paio di persone hanno piazzato dei bassi sgabelli di plastica in mezzo al corridoio e si accomodano così. Man mano che si prosegue continuiamo a caricare persone; arriviamo a essere 24 su un mezzo omologato per 16. In ultima fila c’è una coppia di giovani, lei inizia a vomitare dopo dieci minuti e andrà avanti tutto il viaggio; scenderà, pallida come un cencio e traballante sulle gambe, a pochi chilometri dal capolinea. Magari è in cinta oppure ha semplicemente mangiato pesante; io per non sbagliare mi sono tenuto leggero.
Il viaggio dura tre ore lungo una strada miracolosamente asfaltata, tortuosa e a strapiombo su lontani torrenti impetuosi e limacciosi. Pian piano i passeggeri vengono lasciati alle loro case, io sono l’ultimo, ormai è quasi buio e mi chiedo che ne sarà di me in questa valle sconosciuta che assomiglia alla valle di Dracula nel film di Coppola.


Arriviamo a Tabant, anzi un sobborgo. Definirlo paese è esagerato, sono tre case su un sentiero sterrato; vengo accolto da Husayn che mi introduce in una casa berbera di cui sono l’unico ospite.

Mi aspettavo altri trekkers ma la guida mi dice che quest’anno c’è poco movimento; non so se lo dice per impietosirmi e strapparmi un prezzo più alto. Tira fuori la carta e mi mostra due alternative: la Boucle e la Traversée, l’anello del massiccio del M’Goun o la traversata fino alla Valle delle Rose. La seconda sarebbe fantastica ma va oltre le mie possibilità economiche e me la tengo per la prossima volta. Inizia una trattativa serrata sul prezzo davanti a una caraffa di tè bollente e speziato. Sono le 9 di sera, non ho mangiato e inizio a essere stanco e nervoso; mi spara un prezzo per il tour senza guida, solo col mulattiere. Gli faccio una controproposta, lui ci pensa su ed esce per il paese alla ricerca del mulattiere. Mentre mangio la tajin di pollo e verdure che mi ha preparato Mohammed, il ragazzo quattordicenne che sta in cucina, rifletto e decido che è meglio avere anche la guida. Quando Husayn torna trafelato formulo la controfferta, lui ci pensa, fà due calcoli ed esce a cercare anche la guida; torna affannato per dirmi che l’affare è concluso: domattina alle 8 si parte con guida, mulattiere, mulo e tenda per il giro del M’Goun.


Un giorno di ordinaria follia a Marrakech

Esco alla scoperta della citta. La Koutobia è il simbolo della città, la torre del minareto svetta sulla medina e la sera, illuminata da mille luci, è uno spettacolo da Mille e una notte.


Vengo intercettato dal solito venditore d'artigianato, sdentato che parla due parole d'Italiano. Subito passiamo al francese...non che sia molto meglio. 

Cerca di convincermi a fare una puntata nel suo bazar "Seulement pour voir, mon ami" ma presto si accorge che sono il peggior cliente della terra e mi lascia andare. 
Vado in banca a cambiare: qua invece che prendere il numerino devi lasciare il documento sul bancone, insieme a quello degli altri, e poi il bravo impiegato serve 3 clienti contemporaneamente. Io gli ho dato 100 euro e lui mi ha accreditato un mese di pensione marocchina.
Si sentono mille odori nelle strade; ora sono seduto su una panchina e mi viene al naso profumo di mandorle tostate. 
Visito le tombes Saadiennes costruite in bianco marmo di Carrara e penso a quanto sia pregiato questo materiale tutto italiano, a come siamo fortunati ad avere le più grandi cave di uno dei materiali da costruzione più desiderati al mondo. 
Mi godo un tè alla menta in un bar su uno degli incroci più incasinati che abbia mai visto, pullman, motorini - vecchi Peugeot ad avviamento a pedale - carretti trainati da asini tanto magri quanto spelacchiati. Macchine e furgoni si fermano in continuazione in mezzo all'incrocio per caricare o scaricare persone e pacchi ma questo non sembra preoccupare né tantomeno irritare l'automobilista medio marocchino che - sospirando Inshallah - allarga le braccia in attesa che il flusso riprenda lento e incostante. 





Un venditore di tappeti mi trascina nel suo bazaar millantando la conoscenza di un amico Emilio Qualchecosa, dentista a Milano. Qui tutti hanno amici, o amici di amici, in Italia.
Io schivo contrattazione e acquisto di qualsiasi bene, dalle spezie ai tappeti, affermando di non avere spazio, soldi, lavoro, moglie e famiglia.
Sono l'ultimo degli ultimi, un pellegrino nullatenente interessato solamente a comprare momenti e visioni, colori e odori.
Non posso mettermi il Marocco nello zaino, me lo metto negli occhi e nel cuore.
Entro al Palais el Bahia, capolavoro dell'architettura arabo-marocchina: dal rumore del traffico vengo catapultato in un piccolo paradiso dove gli aranci rinfrescano i riad e le corti. Sono sempre affascinato dalle decorazioni di maiolica colorata che riproducono solamente forme geometriche, le stesse da Agra a Siviglia, da Istanbul a Marrakesch. Il Corano vieta la riproduzione di figure umane o animali - giacché questa è prerogativa di Allah - e così gli architetti musulmani hanno dato sfogo alla fantasia creando, appunto, gli arabeschi, finissimi intrecci di fantasia che si mescolano a fiori e versi sacri. 
Ho molte sensazioni di deja-vu: da Granada, Cordoba e Siviglia, al Taj Mahal, alle splendide moschee di Delhi, da Santa Sofia e Topkapi ai patios nascosti di Palma de Mallorca, l'architettura islamica si replica all'infinito, uguale a se stessa eppur diversa. 
Il grande cortile bianco contornato da colonne ottagonali con piccole venature blu è scintillante e mi ferisce gli occhi: non riesco a sopportarne la vista senza che mi lacrimino gli occhi. Due bambini, uno vestito di rosso, l'altro di blu, compiono evoluzioni sul candido marmo: il contrasto cromatico stordisce i sensi.



Ho scoperto che nessuno dei 2 bancomat funziona in nessuna banca marocchina, quindi mi devo far bastare i soldi che ho: la cosa non dovrebbe essere difficile, visto che qui si mangia con cinque/sei euro e si dorme più o meno con la stessa cifra. Per risparmiare ho deciso che prenderò la guida direttamente ad Agouti dove inizia il trekking. Domani parto in autobus verso l'Atlante. Intanto per rilassarmi mi sono fatto un bagno nella piccola piscina del riad e poi mi sono messo alla ricerca di un ristorante. 

La medina di Marrakech è un maledetto labirinto, ti inoltri nei vicoli, fai 3 curve, passi sotto 3 case e ti trovi in un cul de sac. Ho trovato l'uscita dall'hotel solo al terzo tentativo; mi sono inoltrato nel souk e ho scovato una chicca: il vicolo dei fabbri. Un'intera via dedicata esclusivamente alla lavorazione del ferro.
Nel souk decine e decine di motorini sfrecciano a velocità folle, facendo pericolosamente il pelo ad ogni genere di mercanzia stipata negli anfratti delle botteghe. Ho appena visto una donna sfrecciare in motorino con bebè avvolto in uno scialle rosso a mo' di marsupio: in Italia un'azione così sarebbe punita con il ritiro simultaneo di patente e patria potestà.





Dopo un tramonto spettacolare con vista sui tetti color ocra di Marrakech, vado a cena ai mitici banchetti di Jemaa el Fna. Mi siedo al banchetto del venditore di lumache e per 10 Dirham mi faccio una scorpacciata di gustosi molluschi. La piazza è un orgasmo di luci, suoni, colori, gente, venditori di cibo che ti trascinano da qualsiasi parti e cercano di farti sedere ai tavoli.





Sapore d'Africa


Il sapore d'Africa inizia sulla scaletta dell'aereo a Malpensa: pochi italiani, donne velate, stranieri di differenti nazionalità, coppie miste italo-qualcos'altro, un cantante senegalese che si intorta tutte le donne che si imbarcano, una donna dalle fattezze assai poco femminili allatta prima del decollo, bambini scalzi corrono avanti e indietro per tutta la durata del volo. Di fianco a me un signore talmente grasso che la hostess è costretta a dargli un'estensione della cintura di sicurezza. Dall'altra parte una ragazza italo-marocchina che va a trovare i parenti. Volo tranquillo, si atterra, scendo dalla scaletta e assaporo il profumo di mamma Africa. Non è l'afrore dell'equatore ma piuttosto il clima temperato maghrebino. Ad ogni modo fà meno caldo che a Milano.

Scatta la gara di corsa: qua è usanza fare i 100 metri piani per arrivare primi al controllo passaporti ed evitare la coda. In realtà me la cavo in 10 minuti e faccio il mio ingresso ufficiale nel Royaume du Maroc. 
Tutti prendono i taxi dall'aeroporto, io opto per il 19, un comodo autobus che per soli 30 Dirham mi lascia a Jemaa El Fna, la piazza più grande e famosa di tutto il Marocco. Un enorme mercato, ballerine che danzano velate, cantori, allevatori di pulcini colorati di tinte innaturali, gente che vende, compra, ruba, parla, canta, mangia...cibo dappertutto, spiedini di carne, verdura e frutta invitante. Sono sopraffatto dai colori e dai rumori. Come mi mancava tutto questo: la confusione, i vicoli del souk con biciclette e motorini che sfrecciano e suonano. L'impressione è che il Marocco sia una piccola India, pulita, ordinata, meno popolata e in cui la gente non muore di fame per strada. 
Domani mi farò un'idea più precisa. Intanto sono alloggiato in un riad in perfetto stile moresco, con piscina. 

Avevo appena finito di dire "com'è pulito sto posto" che si è intasato il cesso e la merda è venuta a galla. Sono andato in reception per vedere cosa si potesse fare e un solerte addetto, dopo aver preso atto della situazione, ha allargato le braccia e mi ha cambiato stanza. Sono passato da una stanza da 8 a una da 4 (allo stesso prezzo). 
Good deal...speriamo non esploda qualcosa. Domani mi lancio alla scoperta della città.

Marocco

Sto partendo per il Marocco. Obiettivo: arrivare sulla cima dell'Ighil M'Goun (4071 m) usando nell'ordine Bikemi, Malpensa Shuttle, aereo Easyjet, bus marocchini vari e gambe del pellegrino. Parto da casa col Bikemi e lo zaino sulle spalle sperando di non stramazzare sotto il sole del pomeriggio.